Galleria LAC Lagorio Arte Contemporanea testi G.M. Accame e A. Zanchetta

Forse non si avverte immediatamente, i colori, la vivacità che spesso li distingue, può infatti sviare, ma poi si comprende come l’idea di misura, il senso dei rapporti, la definizione di ogni elemento, tutto, in queste opere, sia inscindibilmente legato al pensiero che le ha concepite. Un pensiero che nasce unitamente all’oggetto pensato. Una coscienza del fare che è sempre coscienza del concreto. Le opere di Dal Molin, il suo modo di porsi rispetto al lavoro sono interamente immersi in una cultura che non separa la teoria dalla pratica, ma le concepisce come facce di una medesima condotta. Molto spesso in arte si percepisce l’opera come realizzazione di un’idea, avvertendone la distinzione di tempi e modi. Qui tutto concorre ad annullare quell’intervallo.

La visita nello studio dell’artista mi ha permesso di conoscere un percorso ventennale, sopra tutto sono state rivelatrici le opere dei primi anni novanta e, ancora, un successivo gruppo di formelle in cemento. E’ infatti nel decennio scorso che il lavoro raggiunge un alto grado di consapevolezza e qualità, nello sviluppo di premesse già precedentemente messe in atto. Quell’idea di misura cui già mi sono riferito, nel chiarore delle polveri su legno del 1992/93, in una luce che sospende forma e materia senza velarle, si delinea in tutta la sua finezza e determinazione. E’, infatti, un tratto proprio di questo artista agire intellettualmente e manualmente con risoluta leggerezza.

Credo sia utile soffermarsi sull’importanza di queste opere, anche per una più aderente comprensione del lavoro attuale. Quei legni dipinti riescono a sommare alcune esperienze delle Avanguardie storiche  e dell’Arte concreta anni ’30 fino al Minimalismo degli anni sessanta, immergendo poi quell’esperienza in una personale rivisitazione di memorie classiche e neoclassiche, così da raggiungere un linguaggio plastico originale. Un linguaggio contemporaneo che, alla complessità vista come disarticolazione, contrappone una complessità intesa come connessione. Dal Molin si applica in questa ricerca con le modalità a lui più congeniali, quelle di una pratica riflessiva e manuale condotta con tenacia e concentrazione. Ciò che prende avvio con  il lavoro dei primi anni novanta è quella nuova costruttività che ora si afferma con ogni evidenza. Il senso di quei rilievi, dislivelli, lievi ombre proiettate, curvature di tracciati, sono l’alfabeto primario di un fare che si ritrova a fondamento delle opere attuali.

Un aspetto importante da chiarire perché non investe problematiche esclusivamente tecniche, ma interviene nella concezione del lavoro, è quello della progettualità. In tutto l’arte che ha caratteri di tridimensionalità e, in particolare, una tridimensionalità non modellata, ma costruita, l’incidenza del progetto sposta l’intenzionalità dell’artista. Nella Minimal Art dei Donald Judd, Dan Flavin o Sol LeWitt, ciò che conta è la definizione progettuale, la trascrizione attuativa dell’idea, effettiva realizzazione delle opere non deve rivelare nessuna traccia manuale, nessun accento di espressività individuale, tanto che spesso l’esecuzione non è effettuata dall’artista, ma affidata ad altri. Nel nostro caso invece, le qualità dell’esecuzione tecnica e dei materiali impiegati, sono profondamente legati alla sapienza di un lavorazione a mano, dove la mano, come ho ricordato, raramente è solo esecutiva, perché sempre mossa da un pensiero che può modificarsi e modificare l’opera in ogni momento. Qui il progetto comprende delle coordinate generali che devono essere tutte attuate nell’esperienza di un divenire proprio ad ogni oggetto. L’espressività, la traccia di un’idea legata a un’emozione, è presente in ogni opera.

Se si guarda l’alta e stretta colonna bianca del 2005, tra i lavori recenti uno dei più evocativi delle esperienze dello scorso decennio, si avverte come Dal Molin si concentri in pochi elementi raggiunti per progressiva eliminazione di altri, più ridondanti motivi. In accordo con l’affermazione di Mies van der Rohe “il meno è il più”, tutto si concentra in lievi movimenti plastici scavati entro un parallelepipedo bianco. Il lungo slancio verticale, l’irregolarità degli andamenti, il taglio netto che interrompe l’ascesa, l’intimità dello spazio che si distende,  fanno di questo lavoro un oggetto sospeso e aperto a più declinazioni interpretative. E’ qui affrontato dall’artista uno dei suoi temi ricorrenti, il passaggio da un esterno a un interno, uno scivolare incrociato tra dentro e fuori che da un’idea di spazio assoluto giunge all’intimità del luogo pensato. Porre degli oggetti nello spazio e avviare un dialogo, ma anche ricavare attorno a quegli elementi un’attenzione più concentrata. Già da anni, con il ricorso a colori intensi, ad accostamenti vivaci, queste opere sollecitano una doppia percezione che alle tre dimensioni somma la cromaticità delle superfici. Dal Molin è poi interessato, da sempre, alla qualità dei materiali applicati alle parti piane e ora, dietro l’indicazione di tecnica mista, dissimula spesso delle elaborazioni raffinate che vanno oltre alle tradizionali tecniche pittoriche. Il trattamento delle superfici influisce evidentemente sull’efficacia dei pigmenti e le caratteristiche del colore sulla percezione stessa dell’oggetto. In uno dei lavori recenti tra i più impegnativi, costituito da 6 elementi lunghi due metri e mezzo ciascuno, posti orizzontalmente a parete e irregolarmente accostati, tutte le componenti ricordate svolgono una funzione attiva. Il rapporto tra differenti dimensioni di spazio, il colore, la definizione formale dei singoli elementi e la configurazione che assieme vengono ad assumere, tutto è pervaso da quella ricerca di interna comunicazione con le cose che distingue questo artista e fa coincidere la sua esperienza con un atto di coscienza. Per questo le opere non sono oggetti del calcolo o della geometria, ma idee concrete che si definiscono nel loro stesso processo di definizione. Un processo senza pause, continuamente impegnato a tradurre in forme pensieri ed emozioni, forme che non sono figure astratte ma testimoni di effettiva esistenza. Una misura del fare che, per questo artista, è il senso di esistere.

testo: Giovanni Maria Accame

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ABSTRACtaTUS

in cui diversi punti sulla comune natura delle cose

si mettono del tutto in chiaro

 

Forma e colore. L’astrazione si riconduce a questi due elementi fondamentali. L’astrazione, in effetti, riduce tutto a una grammatica elementare, procede dall’esistenza alla pura essenza delle cose liberandole da ogni onorificenza e da tutti i cerimoniali (animale implume che garrisce più forte). Scortica l’immagine, la depriva dei muscoli, dei tendini, degli organi vitali, raggiungendo l’eloquenza, quello del nerbo che è concentrazione e devozione. Abstractus, “astrarre”, nel senso dell’estrarre: Giuliano Dal Molin estrapola le ossa dall’incommensurabile corpus universalis della figurazione, lo smembra, lo divora per un peccato di gola restando il suo desinare di fronte all’osteofagia, risorsa primaria del corpo-colore spolpato che rasenta la porosità ossea. Premesso che l’arte è selettiva – più che mai nella normativa dell’astratto – la visione esprime il giudizio intellettuale del singolo individuo. L’occhio non comprende cosa stia osservando, spetta al cervello riconoscere l’oggetto, a meno di esserne tratto in inganno. Nello slancio della visione lo stallo della mente; accadeva a Kandinskij nel noto aneddoto in cui vide “d’improvviso un quadro di bellezza indescrivibile, imbevuto di un ardore interno. Mi fermai colpito, poi mi avvicinai rapidamente a questo quadro misterioso su cui non vedevo altro che forme e colori e il cui contenuto mi era incomprensibile. Trovi subito la chiave del mistero: era un mio quadro che era appoggiato alla parete di lato”. Quando l’equivoco non c’è, quando non si svela, il cervello cerca di individuare l’oggetto attraverso il paragone con ciò che gli è affine, che gli somiglia. Ego cogito me videre. Nel processo conoscitivo la condivisione di senso non è attendibile, ma per lo meno credibile. L’affioramento, l’insistente tentativo di “trarre fuori” dal carcame figurativo suggerirebbe un’equivalenza con femori, tibie, falangi, costole e vertebre che Dal Molin sottopone ad accurata resezione. Elementi che combinati assieme potrebbero fornirci un’unità – entità, ripristinando lo scheletro della pittura. Eppure, sempre meno mistilinee se non per qualche effetto concavo/convesso, le opere rivendicano il rigore (che è rancore per la natura) della spigolosa linea retta. Altra e forse più plausibile ipotesi potrebbe giungerci da una decostruzione architettonica, magari dell’international style. Potrebbero infatti essere delle architravi, delle capriate, colonne oppure lesene. Si rafforzerebbe così la convinzione dell’artista di uno spazio concepito come forma, che genera esso stesso le forme. Nella ricerca di Giuliano Dal Molin l’indolore travaglio del primario procede dal sacrificio del quadro alla sfida con lo spazio (un peintre qui fait de la sculpture o viceversa). Le opere sono ripulite, purificate dall’afrore cadaverico dall’ancien régime astratto-analitco di modo che alcuna ordalia possa negargli l’alibi e l’assoluzione del delitto. Inoltre nessun leguleio potrà contestargli il fatto di trascendere la matematica e la geometria, né potrà assillarlo con gli sdoppiamenti della realtà coordinata, omogenea, perché esse si conciliano con il “quasi nulla”.

Non sembrano niente, sono.

testo: Alberto Zanchetta