La vita è ciò che facciamo di essa …

Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo …

[Ferdinando Pessoa, Il libro dell’inquietudine]

Non riesco proprio a togliermelo dagli occhi quel quadrato rosso. La sua leggerezza concava e protesa alla carezza della luce, la sua discreta ma assoluta presenza nella stanza avvolta nella semioscurità di una giornata piovosa, tra quadri antichi che appaiono, sulla stessa parete, come rettangoli di pittura quasi nera .

Perché Giuliano Dal Molin ha voluto disporre le sue opere creando un temporaneo percorso di installazioni nel Convento dei Cappuccini di Schio? Due spinte lo hanno sicuramente guidato, una personale e affettiva: la volontà di rendere omaggio a questa comunità in un particolare momento della sua storia e della nostra storia . L’altra legata al suo lavoro, alla possibilità di entrare in relazione con un luogo diverso dagli spazi espositivi abituali, neutri e bianchi, un luogo denso di spiritualità, di memoria, dove si sono sedimentati attraverso i secoli e le alterne vicende, i segni della devozione e della vita di una comunità francescana che ha sempre offerto e continua ad offrire a tutti accoglienza e carità .

E’ entrato in punta di piedi, tra il via-vai indaffarato ma attento, vigile e gentile dei Padri e degli ospiti, ha disposto le opere in modo da stabilire un discreto e silente dialogo tra gli spazi delle sue presenze, gli ambienti del Convento, e noi, che entrando in quelle stanze siamo coinvolti in una dimensione percettiva nuova, sollecitati a cogliere sfumature di luce e di significati. Una dimensione spirituale inaspettata e tuttavia pregnante e coerente. Dove le forme diventano luoghi.

Per arrivare a questa esperienza Dal Molin ha maturato un percorso le cui radici affondano nelle origini stesse dell’arte italiana, nei nitidi volumi delle geometrie di Giotto e di Piero della Francesca. Ha iniziato negli anni ’80, quando poco più che ventenne ha intrapreso il suo lavoro di artista in un terreno di ricerca che definiamo per tradizione Astratto: forme, colori, linee, superfici e volumi sono gli elementi base attraverso i quali si elabora e si esprime il pensiero, senza concedere nulla a illusionismi compiacenti, né alle abitudini della percezione. I più radicali antenati di questa ricerca che nega l’idea di arte come imitazione della realtà, per creare una nuova idea di dipinto come dispositivo in azione e presenza nella realtà, sono artisti europei quali Piet Mondrian, Kasimir Malevich o Josef Albers. Poi sono arrivati tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 i minimalisti americani come Donald Judd, Carl Andre, Frank Stella…

Tuttavia costanti tensioni allo studio e alla ricerca hanno portato Dal Molin a rigorose sperimentazioni e cambiamenti, apparentemente minimi, ma di fatto sostanziali perché gli hanno permesso di sviluppare una sua personale visione, perfezionando nel contempo la sua tecnica esecutiva impeccabile. Fondata su una coscienza del fare che è sempre coscienza del concreto .

Il suo punto di arrivo è uno spazio-paesaggio, inteso come una porzione di spazio delimitato dalla vista . La composizione procede a partire da un’intuizione, da una disposizione ad accogliere i suggerimenti che vengono lavorando con la forma stessa e non è mai predeterminata. Nel suo lavoro individua il limite come potenzialità, usa solo gli elementi che, insieme al colore-luce, possiedono una costante coerenza in quanto principi di organizzazione interna e universali essenziali del paesaggio . Sono opposizione e complementarietà, pulsazione ritmica curva, altezza e profondità, verticale e orizzontale. Gli accostamenti creano dinamiche aperte, potenzialmente infinite, inquiete.

Si tratta di trovare ogni volta la qualità come misura instabile, la bellezza come esperienza e coscienza, come “cultura dello sguardo”. Il tema dello spazio diventa per Dal Molin ossessiva necessità di “colmare un vuoto, creare uno spazio dello spirito” .

“Egli … dona, attraverso il fare, al modulo che egli concepisce come spazio infinitesimale ma universale, una grande capacità di ricreare attraverso i Sensi luoghi unici e personalissimi a seconda dell’osservatore” .

 

Percorrendo l’itinerario individuato nella mappa e predisposto dall’artista s’incontrano ventuno soste – stazioni create per disporci in atteggiamento contemplativo alla riflessione e al raccoglimento, lasciando emergere silenziosamente il senso della bellezza “… Sola Beatitudo”.

Il punto di partenza è esterno al convento, davanti alla porta della clausura. Una forma bianchissima, due concavità asimmetriche accostate al memento mori, una presenza leggera, volatile, librata, sospesa, delicata e luminosa contro la cupa pesantezza del teschio e del monito che lo accompagna. Oltre la soglia l’itinerario conduce a salire verso le celle, poi, dopo gli stretti corridoi, si alternano gli spazi poco più ampi del refettorio e del chiostro, e quindi l’oratorio, il corridoio dei confessionali, la cappella del Rosario e infine il presbiterio di fianco alla Pala di Alessandro Maganza . Qui tre linee-forma, tre colori – antracite, grigio chiaro, verde – e quattro direzioni aperte e opposte ad angolo retto sono in relazione con la maestosa composizione manierista, la richiamano in vita senza disturbarla entrando in risonanza spirituale con i suoi cupi colori.

Il carattere di ciascun ambiente è trasformato da nuove relazioni spaziali e cromatiche. La successione dei luoghi rivela di volta in volta disposizioni tonali e variazioni sul tema della luce e dell’ombra, animate da tensioni, spinte e controspinte, direzioni di forze che non costringono lo sguardo a riconoscere qualcosa, ma lo dispongono a reagire e interagire con emozioni sottili e profonde.

Alessandra Menegotto

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Per involontaria associazione affiora lentamente dalla mia memoria l’atmosfera dello sfondo del quadro Las Meninas di Velàzquez, dei suoi quadri nel quadro, delle sfumature di buio rivelate dalla luce, evocata solo dagli accostamenti dei grigi.

La storia del Convento dei Cappuccini di Schio è stata raccontata in: I Cappuccini di Schio, appunti storici a cura del Circolo Culturale Cappuccini, 1998, Grafiche Marcolin-Schio; meriterebbe di essere ancora approfondita, dati anche i recenti sviluppi che vedono imminente la sua chiusura, già minacciata, ma poi scongiurata, nel 1998.

Giuliano Dal Molin ha già esposto nel 2006 in uno spazio di carattere religioso, l’Oratorio della disciplina di Rovato – Brescia. “In un contesto culturale dove prevalgono la dissipazione e le cose virtuali, noi offriamo ora ai rovatesi un luogo reale dove, chi lo desidera, può sostare per ascoltare, riflettere e contemplare.” Scriveva mons. Gian Mario Chiari, Prevosto di Rovato, in occasione della riapertura dell’Oratorio dopo anni di abbandono.

LA MISURA DEL FARE – Testi di G.M. Accame – A. Zanchetta – 2005 – LAC Brescia – “Dal Molin dimostra lo stesso atteggiamento degli antichi “maestri” medievali nei confronti dell’opera d’arte. Il suo modo di porsi rispetto al lavoro è interamente immerso in una cultura che non separa la teoria dalla pratica, ma la concepisce come facce di una medesima medaglia. “Le qualità dell’esecuzione tecnica e dei materiali impiegati, sono profondamente legati alla sapienza di una lavorazione a mano, dove la mano, raramente è solo esecutiva, perché sempre mossa da un pensiero che può modificarsi e modificare l’opera in ogni momento. L’espressività, la traccia di un’idea legata a un’emozione è sempre presente in ogni opera.” http://www.undo.net/it/mostra/38853

F. Jullien – La grande immagine non ha forma – a cura di Marcello Ghilardi, 2004, angelo colla ed., pag.165

Ibidem

Giuliano Dal Molin – 2 PIANI -Testo di C. Seganfreddo – 2004- 503 Mulino -Vicenza

DISTINZIONI – Testo di L. M. Barbero – 1992 – Bevilacqua La Masa – Venezia

La pala datata 1607 (restaurata nel 1993), cinque anni dopo la consacrazione della nuova chiesa la cui costruzione era iniziata nel 1597, presenta San Nicola (Nicolò per i Veneziani) da Bari, al quale la chiesa è dedicata, con Lorenzo da Brindisi (al tempo del Maganza Rettore nel Veneto dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, nominato santo da Leone XIII nel 1881 e annoverato tra i Dottori della Chiesa), San Francesco, Santa Chiara e Santa Caterina d’Alessandria.