L’esperienza della pittura di Angela Madesani

Il pensiero iniziale della pittura di Giuliano Dal Molin è un segno che si espande nello spazio e che va in tutte le direzioni. Nel corso degli anni, dagli Ottanta a oggi, questo artista, che passa buona parte del suo tempo nello studio a fare ricerca sulla materia, sul colore, sulla forma, sul senso stesso del suo operare, ha lavorato in una dimensione in cui il confine fra pittura e scultura non è così definito. Non una terra nullius, ma un territorio colmo di idee, in cui non è facile né tanto meno importante offrire delle definizioni. La sua è una voglia continua di sperimentare, di sorprendersi per primo degli esiti del suo fare.

Qui nella mostra da ArteSilva pare di potere scorgere una preponderanza pittorica. I colori delle opere, perlopiù freddi, sono quelli della tradizione, di Piero della Francesca, di Giorgio Morandi, ottenuti attraverso una ricerca strenua, talvolta ossessiva. Nessun grigio, solo per fare un esempio, è fatto di bianco e di nero, vi è piuttosto la tensione nei confronti di un equilibrio fra i colori, il più delle volte primari, che vengono posti in dialogo sino a ottenere il risultato desiderato. Testimonianza dei diversi passaggi sono i bordi delle opere, in cui emergono le tracce dei colori utilizzati: memoria poietica e poetica certo.

Per la prima volta in un’opera, che è qui in mostra, Dal Molin utilizza un verde brillante, senza paura di scoprirsi troppo realista, eccessivamente mimetico nei confronti della natura, del suo circostante.

Determinante per tutto il suo lavoro, e qui non di meno, è il rapporto con lo spazio, in tal senso va letta la cura per l’allestimento, in una regia precisa, ordinata, in cui l’artista non lascia nulla al caso.

«Lo spazio è una sfida che genera la forma. Suggerisce le possibilità infinite della forma che a volte diventa segno, o volume, o colore. Sento il bisogno di uscire da uno schema chiuso della forma per essere e lavorare con lo spazio»[1]. In tal senso è determinante il dialogo continuo fra i diversi linguaggi all’interno del suo lavoro. Già in un testo del 1993 Luca Massimo Barbero parlava di un inseguimento, in ogni singola opera, di un interminabile percorso dedicato poeticamente alla ricerca dello Spazio concepito come Forma[2].

La storia dell’arte, come già detto, è materia di riflessione continua, ma anche l’architettura, in particolare quella delle origini, quella romanica. Mi piace trovare una certa similitudine con una particolare opera del nostro novecento, il monumento funebre che Giuseppe Terragni ha realizzato nel 1935 per il giovane Roberto Sarfatti, caduto durante la prima guerra mondiale. Un monumento sospeso nel vuoto della natura del Col d’Ecchele, neppure troppo distante dai luoghi dove Dal Molin vive. Anche qui ci troviamo di fronte al superamento dei diversi linguaggi, dell’architettura, della scultura per giungere a qualcosa d’altro, di indefinito, di indefinibile. E superamento della pittura nella sua specificità è nella ricerca di Dal Molin.

«Ho l’ossessione di un’idea, il bisogno di arrivare ad esaudirla, di colmare il vuoto fino alla fine»[3]. La sua non è un’ossessione relativa alla ripetizione di uno stesso soggetto, ma è relativa al metodo di lavoro. La volontà è quella di arrivare all’essenza, al nucleo portante delle cose. Il tentativo, riuscito, è quello di eliminare qualsiasi orpello. Ornamento è delitto, per citare Adolf Loos. Vi è una sorta di pulizia formale in tutto il suo lavoro che corrisponde a un’aspirazione diuturna a una pulizia mentale e-perché no?- etica. Il fare arte è per lui un modo per dare senso all’esistenza, alla propria ovviamente, ma non solo. L’aspirazione è quella di arrivare alla purezza, quella della luce, per giungere in profondo, a toccare la complessa semplicità dei fenomeni. Non è azzardato dunque parlare di una tensione spirituale del suo lavoro.

«L’idea di perfezione o apparente perfezione è conseguenza del bisogno di mettere ordine, ordine nella vita. ho bisogno di colmare un vuoto, di creare uno spazio dello spirito»[4]. Anche la ricerca della forma non ha nulla a che fare con la geometria, sebbene si tratti di forme geometrizzanti. L’opera nasce e cresce, si sviluppa non dettata da un calcolo precedente. Sono piuttosto idee concrete che si definiscono nel loro stesso processo di definizione, come ha scritto Accame[5].

Il progetto, in taluni casi, è il punto di partenza ma lo sviluppo è autonomo, la matrice emozionale svolge un ruolo precipuo, anche se la volontà di rigore, di sintesi sono una guida al suo procedere, in ogni momento. Il disegno, su un blocco, è per lui pratica quotidiana, ma non è vincolante. In fase di costruzione, di realizzazione, l’opera subisce dei mutamenti, può diventare altro. «L’opera non si esaurisce con la progettazione. Continua in una progressione che mi porta a sviluppare la forma anche durante l’esecuzione, seguendo la volontà interna del lavoro stesso»[6].

Nelle opere qui esposte, tutte realizzate nell’ultimo anno è possibile leggere una sorta di liberazione da qualsiasi forma di limite, è la volontà di esprimere totalmente, in tutta la sua pienezza il suo pensiero pittorico, senza timori di sorta. I lavori in mostra sono assemblage: i singoli pezzi non nascono in maniera autonoma. Nel momento in cui l’artista li crea pensa già alla posizione che i pezzi occuperanno all’interno dell’opera, dando vita a un’armonia d’insieme. In mostra sono anche una serie di carte in cui il colore che noi vediamo è solo la traccia di quanto si è depositato sulla carta, dopo aver levato tutto quanto è in eccesso.

Anche qui è un cammino verso l’essenza delle cose, si badi bene, il suo non è un facile atteggiamento alla ricerca di un grado zero dei fenomeni, ma un punto di arrivo certo, dal quale ogni volta bisogna, tuttavia, ripartire per ricominciare, giorno dopo giorno, un nuovo cammino con e nella pittura.

 

(In ricordo di Giovanni Accame che di Giuliano Dal Molin ha scritto con la solita intelligenza critica)

 


[1] G.Dal Molin a cura di C.Seganfreddo, 2 Piani Giuliano Dal Molin, Galleria 503 Mulino, Vicenza, 2004.

[2] L.M.Barbero, Giuliano Dal Molin, Barbierato Arte Contemporanea, Asiago, 1993.

[3] G.Dal Molin a cura di C. Seganfreddo, op.cit., 2004.

[4] idem

[5] G.M.Accame La misura del fare in G.M.Accame, A.Zanchetta, La misura del fare, Galleria Lagorio, Brescia, 2005; p.8.

[6] G.Dal Molin a cura di C. Seganfreddo, op.cit., 2004.