"DAL MOLIN"

Dalla fine degli anni ottanta a oggi il lavoro di Giuliano Dal Molin (Schio, Vicenza – 1960) si è sviluppato con grande coerenza nella forma, nel colore e nel trattamento delle superfici.

Questi mutamenti sembrano essere avvenuti per spostamenti minimi che rivelano la forza di un pensiero caratterizzato da profonde meditazioni e da convinzioni sentite e pure. Anche oggi, per questa occasione, Dal Molin attua una svolta radicale a partire da un bisogno viscerale: colmare un vuoto, creare uno spazio delle spirito.

Per Lagorio Arte Contemporanea l’artista ha quindi pensato a una mostra con opere non semplicemente costruite ad hoc per le pareti ma a un sistema di installazioni la cui natura è profondamente legata alle ragioni dell’equilibrio, di pittoricità e di luce dello spazio concepito in maniera totale.

Due interventi imponenti sulle pareti principali delle sale, insieme a 14 disegni, ad alcuni lavori appesi – tutti inediti – e a un’installazione policroma di 17 elementi, raccontano le scelte e il percorso di Dal Molin negli ultimi anni, narrano la volontà che unisce le necessità dell’opera e quelle dello spazio, esprimono la profonda comunione tra il sentire dell’ambiente e quello dei suoi lavori.

Ecco perché l’ingresso in mostra è segnato dalla Porta, un’installazione progettata dall’artista qualche tempo fa, e ora ripensata per accogliere gli spettatori all’inizio di questo percorso, che segna l’entrata nelle sale e nell’universo poetico di Giuliano Dal Molin.

L’immagine non è stata accantonata o rimossa, parrebbe invece ch’essa sia sprofondata, svanita, sia stata consumata dallo sguardo e condotta all’interno.

Per capire le ragioni di questa modalità e di queste scelte, e per comprendere quanti si tratti di necessità radicale, è bene fare un breve viaggio attraverso la sua indagine. L’obiettivo di questo piccolo percorso, sarà quindi quello di entrare all’interno della “progressione” che porta Dal Molin a sviluppare la forma anche durante l’esecuzione, seguendo la volontà interna del lavoro stesso”. In questo modo, avvicinandoci allo “stato di coscienza” delle opere, sarà più semplice cogliere i cambiamenti ed entrare all’interno del mondo progettuale e ideale che ha generato l’esperienza di questa mostra.

Dopo gli inizi, nella seconda metà degli anni ’80, Dal Molin ha incontrato varie fasi che si possono ritenere cruciali. Una di queste si può riscontrare nel 1989, anno in cui inizia a usare il legno come supporto, e a trattare le superfici introducendo la carezza della luce. In queste opere, il trattamento del colore è in qualche misura atmosferico, e pare risentire non tanto di una e vera propria psicologia, quanto piuttosto di una sorta di caratterialità: i colori quasi si scontrano, tanto che il buio e la luce sembrano emergere l’uno dall’altro per corrodersi e assorbirsi vicendevolmente. L’intensità di questo effetto è data dall’ingresso delle polveri nel panorama dei suoi materiali: con queste sabbie leggerissime l’artista dà infatti voce alle componenti pittoriche e tattili della superficie e alle situazioni cromatiche interne all’opera, che viene anche animata da reticoli e geometrie create con delle corde. Oltre a ciò, un aspetto che emerge nel corso di questo periodo, è anche la necessità dell’opera di rapportarsi con lo spazio che la circonda attraverso rigonfiamenti e allontanamenti parziali dalla parete di fondo.

(…) un linguaggio plastico originale (…)

Sulla base di tali necessità, Dal Molin nei prossimi anni ’90 approda a una superficie pittorica intesa come campo di diversificazione della luce e dello spazio. L’opera cessa infatti di essere una realtà a sé rispetto al contesto creando delle dinamiche di assorbimento reciproco tra superfici, volumi e impasti cromatici.

Nell’opacità di queste pitture tridimensionali, inizia anche a vedersi un segno maggiormente autonomo: si tratta di scalfiture e di tracce che incidono la superficie in maniera minima ma inevitabile, accentuandone gli aspetti dimensionali.

Di lì a poco Dal Molin aggiunge e allarga anche lo spettro del colore, e integra maggiormente il segno come momento e come “avvenimento” della forma e nella forma. In queste opere dall’intenso valore tattile, lo spazio viene concettualizzato come realtà interna ed esterna all’opera, e l’idea stessa della forma trova ulteriori momenti di maturazione. Il colore si diversifica anche all’interno della stessa opera generando scontri di grande potenza ma anche di estrema raffinatezza, i segni si moltiplicano, le forme si allungano, si curvano, si diffondono e si sospendono nello spazio. In questo modo l’opera porta definitivamente a compimento quello sprofondamento dell’immagine consumata dallo sguardo, e quell’idea di (…) Segno sulla superficie, che da figura geometrica diventa modulo, ritmo, per moltiplicarsi organicamente e divenire testo infinitesimale che coinvolge la luce tramite la Pittura. Quel segno conduce lo sguardo (e) decide l’incidenza dell’atmosfera sulla superficie”.

Questo percorso di maturazione, oltre a trarre spunto e motivazione da una analisi profonda di alcuni brani specifici della storia dell’arte, è legata anche alle ragioni e alle modalità operative dell’artista. L’opera – infatti – non si esaurisce con la progettazione”, ma continua la sua progressione verso il raggiungimento della propria volontà interna: non c’è interesse per le teorie del colore, né l’idea che questa coerenza animata da “minimi stravolgimenti” possa raggiungere l’obiettivo di una “norma” operativa. Per Dal Molin infatti, l’obiettivo non è la formula ma il lavoro, che nell’esplicitare questa maniacale attenzione non manifesta incertezze, ma solo quei dubbi che creano nuove possibilità all’interno del suo percorso. Lo spazio interno e lo spazio esterno vivono in questo senso come in uno stato di fusione fino al raggiungimento di un’identità unica e di una sfida che genera la forma.

(…) lievi movimenti plastici (…)

Questa attenzione e questa cura si ritrovano anche oggi nella plasticità insieme lieve e potente che si espande nell’ambiente rivestendolo quasi come un tessuto epidermico.

I due interventi per le grandi pareti della galleria, nascono proprio dal crescere di questa evidenza e di questi modi di concepire l’opera: Dal Molin ricerca degli equilibri pittorici e la natura di ciascuna delle sale, ne analizza la struttura, l’architettura, e “l’umore”, restituendoli sotto forma di linee, di forme e di colori. Nella sala di sinistra, la scansione verticale della parete di fondo a opera dei pilastri, è lo spunto per un intervento in cui il movimento diventa sinuoso, e in cui l’onda leggera del bianco e del rosso danno una nuova lettura all’infrangersi della luce, ai sui chiaroscuri e ai suoi effetti cromatici nei vari momenti della giornata.

Nella sala di destra invece, l’architettura è inglobata come parte necessaria della superficie, che accoglie la colonna posizionata al centro per risucchiarla all’interno del ragionamento spaziale. Questo intervento va infatti nella direzione di una piena comprensione dello spazio come ambiente carico di tensioni estetiche: la colonna, le aperture di luce e l’andamento delle pareti e del soppalco, creano un ritmo che Dal Molin spezza, isola e restituisce attraverso l’equilibrio-disequlibrio di ogni sua singola scelta.

A questo grande intervento, fanno da contrappunto all’interno della sala un’installazione di 17 elementi scultorei, 14 disegni, e una colonna allestita sul soppalco. Quest’ultima e l’installazione, pur essendo state realizzate qualche anno fa, sono state inserite in mostra a causa del valore fondante che hanno per la recente svolta ambientale e monumentale dell’artista. Le tracce signiche, l’alternanza dei corpi, dei colori e la loro rottura nei confronti di una spazialità banalizzata, sono stati decisivi per un ulteriore ascolto dell’opera, e per questo, insieme alla Porta, costituiscono uno snodo fondamentale per la ricerca di Dal Molin. Oltre a ciò, ed entrando nello specifico delle altre opere esposte a parete, l’installazione appare particolarmente interessante anche per le questioni di ritmo, di alternanza volumetrica e di analisi cromatica di questi ultimi lavori dall’incredibile presenza pittorica e poetica.

 

I disegni

I 14 disegni esposti in sala, insieme agli altri nel soppalco, offrono la possibilità di un’altra, seppur breve, riflessione a conclusione di questa nostra analisi. Non solo infatti queste opere si raccontano come autonome forme di ricerca slegate da ogni possibile valore progettuale, ma insieme alla piccole maquette e ai progetti che compaiono in mostra, danno un ulteriore riscontro alla chiarezza che appartiene alle forme di Dal Molin. I disegni offrono una narrazione che va a catturare ogni elemento come puro e assoluto, liberando ulteriormente tutta la leggerezza della materia pittorica e cromatica e svelando il carattere e la consistenza delle superfici e del segno.

Con la sua secchezza, con le sue curve e le sue geometrie non euclidee, con la sua pasta cromatica asciutta e dal potente valore tattile, anche nei disegni Dal Molin crea quella magia che è in tutti i suoi lavori e che lo porta a scomporre lo spazio, a smontarlo, a frazionarlo e a ricostruirlo pezzo per pezzo con l’infinta pazienza con cui soddisfa il suo bisogno di uscire dallo schema chiuso della forma.