Galleria Barbierato Asiago

Nella “Silente quiete” delle opere di Giuliano Dal Molin esiste un’estrema qualità della ricerca artistica che vorremmo si potesse chiamare “Preoccupazione creativa”. Egli, infatti, esegue ogni singola opera come se inseguisse, realizzasse, un interminabile percorso dedicato poeticamente alla ricerca dello Spazio concepito come Forma. Caratteristica emblematica quindi del suo lavoro è questa sorta di Silenzio, che appartiene fisicamente all’opera stessa, e quest’ultima (conscia di ciò che possiede) lo porta con sé, lo trattiene, per generare, nella visione di chi guarda, l’idea di un Nuovo Spazio Aureo. Costrittivo diviene il ricollegare storicamente queste opere ad uno strutturalismo storico o minimale che sminuirebbe la loro Essenza, allontanerebbe quella personalissima interpretazione che l’artista da del Volume, ed ancora della Forma, del loro percorso per divenire Opere. Vogliamo invece ricordare, in alcune di queste, il segno della superficie, che da figura geometrica diviene modulo, ritmo, per moltiplicarsi organicamente e divenire testo infinitesimale che convoglia la luce tramite la Pittura: conduce lo sguardo, decide l’incidenza dell’atmosfera sulla superficie. Nelle “Strutture” leggiamo la Cadenza del quadrato, della linea, che intersecandosi percorre la superficie dell’opera, avvolgendola, ma anche determinandola, legittimandola fisicamente. Parrebbe che l’occhio – superata una prima fase di neutralità cromatica – sia invariabilmente invitato a scorrere le linee, per cercare “Colore”, luce, scoprire quanto sia negato e quanto sia delegato al testo, all’”epidermide” divenuta finalmente Corpo.

In queste opere la ricerca dell’artista viene costantemente al confermare come, attraverso la pittura e la costruzione dell’”immagine” nell’opera, tutto legittima la sentenza poetica che le immagini ed il loro perso corso vivono essenzialmente di Luce più che del loro stesso corpo. Così le geometrie volumetriche perdono quell’indagine essenzialmente razionale per divenire esseri motivati e costruiti anche dalla variazione della Luce, dall’incidenza che la materia pittorica costruisce sulla superficie penetrando, sino al divenire materia costituente di tutta la struttura, “essere pulsante” del volume.

Se la figura geometrica, il solido dimensionale, conduce a simbologie ed espansioni dello sguardo legate ad una lettura Modulare, nelle opere recenti si determina una sorta di Forma Imperativa della ricerca.

Questa nuova problematica non esclude la precedente, anzi, la matura, varia, arricchisce (come in un paradosso) sottraendone valori.

La perdita di questa “narrazione” che abbiamo voluto attribuire al Modulo, al quadrato, diviene così, in questi lavori la “Preoccupazione Creativa” anticipata nella premessa. Questa preoccupazione dell’artista è legata alla scomparsa dell’immagine che tracciava la struttura, la legittimava permettendo una lettura semmai immediata. Ora, in superfici solo apparentemente monocrome, tutto sembra delegato alla definizione di volume e spazio, intesi canonicamente. Invece è l’Assenza ancora una volta, il Silenzio, che lo sguardo si trova al giudicare. Accanto alla Pura Contemplazione dell’opera, chi guarda si troverà “Solo” di fronte al Fatto, ad un Luogo che l’artista ha creato, fabbricato. Un simulacro religioso del Silenzio che, tra poesia e Sospensione, genera Nuovo Canto Cromatico. Un canto lieve ed incisivo, un accento parziale, un accento di Colore – Luce che percorre non più la Superficie ma la penetra, ne determina una direzione. E’ la Variazione sul Tema il vocabolo che potremmo usare musicalmente per queste opere; una variazione meditata come controcanto alle soluzioni formali raggiunte precedentemente. L’ ”Immagine” non è stata accantonata o rimossa, parrebbe invece ch’essa sia sprofondata, svanita, sia stata consumata dallo sguardo e condotta all’interno. Sotto e “nella superficie” di questi lavori,  si rivela la delicata Natura dello Stagno di Narciso, ove Immagini (solo tramite lunga contemplazione) si annullano, ri-emergono e scompaiono come grevi fantasmi della poesia. O sono essi: muti fabbricatori dei sogni che incontrano l’attimo dell’occhio per poi ritornare al buio, alle nebbie delle Memoria. (Venezia luglio 1993).