503 mulino Vicenza

ETERNAL ACTIVITY WITHOUT ACTION

Ogni specie di fretta,

sia pure verso il bene,

tradisce qualche disturbo mentale.

 

Gli oggetti sono proiezioni del desiderio,

immagini di una lotta.

Le opere d’arte non cambiano

a seconda di chi le guarda.

Le opere d’arte contengono

Un significato preciso.

Non importa a chi si rivolgono.

 

Incontro spesso gli occhi di Giuliano.

Ti guardano dentro, silenziosi e disperati, come il suo procedere, come il suo entrare in una stanza, come il suo lavoro.

 

Non ti accorgi, ti giri e trovi che ti guarda.

All’inizio quasi a non disturbarti. Fino a disturbarti.

 

Giuliano lavora a San Vito di Leguzzano in provincia di Vicenza.

E’ un piccolo paese sulla statale che accompagna verso Schio. Su quella cresta di mondo che è stata impollinata (impallinata?) da centinaia di piccole e medie fabbrichette, cambiandone drasticamente la morfologia umana e ambientale. Il paesaggio è diventato un immenso alveare, dai tratti irregolari e sconnessi che trovano nella desolazione il cemento d’unione.

Su quella strada che spezza le reni dorsali al verde che si innesta come un organismo estraneo, ora diventato naturale, vive appunto Dal Molin.

Appena cinquanta metri dentro la statale.

Ma questo già basta, in parte.

Li ha costruito il suo studio. Li ha costruito la sua isola.

 

Giuliano procede con il piglio del poeta.

Raccoglie i frammenti quotidiani, le fregole lasciate dall’incedere dei secondi, i capelli rotti sul cuscino della notte, la polvere sui ricordi, le parole storte, i sorrisi spezzati dall’affanno, i centesimi di vita, le nocciole levigate in tasca per portar fortuna.

Ma non solo. Raccoglie sofferenze.

Giuliano cerca nel quotidiano le sue sillabe, le “confuse parole” che piega nei sui elementi.

Un quotidiano che è disordine, dramma, fatica di vivere.

Un quotidiano che ricorda le sfide del novecento poetico.

Un quotidiano senza avvenire.

Un quotidiano che parte da un assioma: Non esiste una sofferenza limite.

 

Il suo è un tentativo sempre vano, sempre reiterato di dare un ordine, di contenere il caos, di sordire il rumore esterno.

E il suo è un tentativo fallimentare.

Che non trova riscontro.

Che viene irriso dal procedere della storia.

Ma Dal Molin procede.

Blocca il suo e il nostro quotidiano e lo sublima.

Nei suoi continui piani di svolgimento. I Piani. Quanti piani scivolano l’uno sull’altro: la forma, la luce, il colore. Ma non solo. l’ambiente interno, memoria – coscienza – spirito, come l’ambiente esterno, urbano e televisivo, tecnico e relazionale.

E lui è pronto a scolpirli, a trovare loro una nuova posizione una nuova dimensione. Un nuovo spazio. Una vicinanza fisica. Un contatto. Un’intimità. E’ un lavoro lento di stratificazione che svolge su un’anima dura di legno, rivestita di pigmento e microscopiche sfere di vetro.

Ed è un lavoro continuo e meticoloso.

Dal Molin è coscienzioso e ordinato.

Rigoroso fino alla maniacalità; premedita a lungo i suoi atti, e li controlla, con modalità scientifica.

Se l’oggetto è sempre una forma simbolica, la proiezione del simbolo non comincia con la proiezione su uno schermo occasionale: la realtà del simbolo è tutta la realtà dell’oggetto e non soltanto la sua superficiale parvenza.

 

Un’opera è terminata quando non si può più migliorare, benché si sappia che è insufficiente e incompleta. Ne siamo talmente esasperati che non abbiamo più il coraggio di aggiungere una virgola, foss’anche indispensabile. Ciò che determina il grado di compiutezza di un’opera non è affatto un’esigenza di arte o verità, è la stanchezza, e, più ancora, il disgusto.

 

Il lavoro di Dal Molin sembra apparentemente un lavoro innocuo e tranquillo.

Sarà per la sua carica decoro-arredativa, che non dispiace ad un museo o ad una galleria come ad una casa privata. Sarà per il suo richiamo apparente alle modalità di intervento di alcuni artisti a lui cari e ormai digeriti. Ma il suo è un lavoro tutt’altro che scontato o innocuo.

E’ tutt’altro che pop.

Sotto c’è un lungo movimento tellurico.

Una superficie in apparenza piana e sicura nasconde insidie, inganni, che si creano e si materializzano, con la luce. Eruzioni continue, movimenti offensivi della forma, che ragionano su una radicata immagine primitiva per trovare una codificazione primaria e unica.

Qual silenzio diventa così inquietante.

Nasconde un mondo fallace, che vede crepe e incongruenza nella sua stabilità.

Dal Molin legge una realtà spezzata, rotta, bagnata, dalla confusione, alla quale contrappone isole, monadi, strutture chiuse-aperte.

 

 

E Dal Molin ivi contiene la sua rabbia del mondo. Ed è una rabbia disperata di chi non trova altra soluzione se non il colore e la forma per spiegare quello che non ha spiegazione.

Tradurre in immagine la caducità cangiante. Muro il cui intonaco è fiorito e ormai pronto per lasciarsi sfogliare. Perché finchè si vive al di qua del terribile, si trovano parole per esprimerlo, appena lo si conosce dall’interno, non se ne trova più nessuna.

 

A CACCIA DI PAROLE IN STUDIO

 

San Vito di Leguzzano 20 aprile 2004

 

Questa non è un’intervista. Ho semplicemente invitato Giuliano Dal Molin a spiegare per punti il suo lavoro per procedere così alla reazione di uno smilzo e sintetico paroliere. Sorta di agevole dizionario che faciliti la lettura del suo percorso. (c.s.)

 

Non so ancora se scultura o pittura. Volutamente non colloco il mio lavoro. Mi interessa questo doppio senso dell’opera, l’ambiguità tra forma e pittura, anche quando l’opera è a parete. Il mio è un bisogno di trovare una dimensione, laterale rispetto alla scultura, al tutto tondo, per creare un lavoro che supera l’idea stessa di scultura, utilizzando gli elementi della forma e del colore.

 

Il colore lo sento come la vita dell’opera. Dopo un lungo periodo monocromo sono ritornato alla vita, quasi a gridare l’opera con il colore. I miei colori sono intensi, pieni, evidenti. E ognuno ha una propria vista e autonomia. Il lavoro nasce con il suo colore: è l’opera stessa che lo autodetermina. E’ così e basta. E non ho alcun interesse per le teorie sul colore.

 

Essere artista è per me un bisogno primario e insopprimibile.

 

Ho un’avversione per la geometria, il calcolo la matematica. Insomma per tutti quegli elementi da progettista. La geometria è un mezzo: un elemento progettuale. Non ho nessuna intenzione di definire l’opera in modo geometrico, di calcolarla, di dare un equilibrio matematico. La uso solo perché mi permette una sintesi di forma-superficie-spazio.

 

Ho l’ossessione di un’idea, il bisogno di arrivare ad esaurirla, di colmare il vuoto fino alla fine.

 

L’opera non si esaurisce con la progettazione. Continua con una progressione che mi porta a sviluppare la forma anche durante l’esecuzione, seguendo la volontà interna del lavoro stesso.

 

L’idea di perfezione o apparente perfezione è conseguenza del bisogno di mettere ordine, ordine nella vita. Ho bisogno di colmare un vuoto, di creare uno spazio dello spirito.

 

All’interno dello studio mi sento vivo. Sono completamente lì. Pensiero che mi fa sentire fisicamente e mentalmente nell’opera. Fuori… sono fuori luogo.

 

Ho uno strano rapporto con le cose, non riesco mai a rilassarmi.

 

Essere consapevoli delle cose. Questa è la coscienza. Onestà e verità con se stessi. Coerenza. Non barare. Non posso simulare con me stesso. Non riesco a lavorare se non trovo delle ragioni.

 

A volte mi sento in gabbia.

 

Lo spazio è una sfida che genera la forma. Suggerisce le possibilità infinite della forma che a volte diventa segno, o volume, o colore. Sento il bisogno di uscire da uno schema chiuso della forma per essere e lavorare con lo spazio.

 

Ho l’ossessione dei punti fissi che si ripetono all’infinito. Il mio lavoro è apparentemente ripetitivo, ma sono solo le dimensioni che si ripetono o il perimetro che si riproduce. Il lavoro è dettato dallo spazio e la moltiplicazione della forma è libera e sempre positiva.

 

L’obiettivo non è la formula ma il lavoro.

 

Ho una necessità al limite della maniacalità.

 

Sono molto interessato ai piccoli incidenti sul lavoro…  creano nuove possibilità di sviluppo al mio percorso.